...mentre vi riguardate la gloriosa compagine dell' ex bar Maximillian e qualche protagonista di quella avventura vi propongo un brano tratto dall' ultimo libro di Stefano Benni "la grammatica di Dio". A voi la lettura e la riflessione aspettando la partita di sabato contro il Vis in Fide a.
IVS
SOLITUDINE E RIVOLUZIONE DEL TERZINO POLDO
(Stefano Benni – La grammatica di Dio)
Tanti e tanti secoli fa, disse zio Nabucco, giocavo a calcio nel campionato dilettantistico. Molte cose sono cambiate da allora, e quattro in modo assai evidente. E cioè il sottoscritto, il pallone, i campi da gioco e il ruolo del terzino. Il sottoscritto, non so per quale misteriosa ragione, cinquant'anni fa correva più forte e più a lungo.
Il pallone, a quei tempi mitici, non era bianco a spicchi colorati, ma di color bruno-giallastro, anzi, per essere precisi, color merda di mucca, almeno quando era nuovo. Dopo aver preso le prime dosi di pedate, cambiava colorito: d'estate diventava bianco e spelato, d'inverno si tramutava in un bolo di terriccio. La sua particolarità era di pesare dieci, anche venti volt-e un pallone di adesso. Quando il campo era infangato, sembrava che amasse rotolarcisi dentro come un porco nel brago, e schizzare come un nero fantasma. Ma soprattutto, intriso di mota, diventava un macigno, un proiettile di mortaio, un meteorite, e ognuno di noi, quando doveva colpire di testa, chiudeva gli occhi e aspettava I'impatto con timore e reverenza. Era come ricevere sulla testa il Sacro Pugno del Dio del Calcio, che piombando dal cielo ammoniva: solo se resisti in piedi, sei meritevole di giocare.
In quanto ai campi da gioco, erano di due tipi: dove non c'era I'erba, é dove una volta c'era stata. Si giocava su terreni screpolati e aridi come deserti, o su campi pronti alla semina, con dossi, crepacci e crateri, si incontravano argilla, arenarie e sabbia, ma dell’erba nessuna traccia. Se ne spuntava un piccolo ciuffo nelle vicinanze della porta, la sola vista ci causava stupore e commozione. Molti di noi, avvicinandosi a quel punto, scartavano per non pestarla. Era così fragile , così verde , così rara. Ma la differenza maggiore tra i tempi attuali e quel medioevo era il ruolo antropologico e destinale del terzino. Ora il terzino si chiama difensore di fascia, è un giocatore come un altro, anzi, come si usa dire, "un giocatore completo". Difende, corre sulla fascia, spinge, crossa, va anche a fare gol. Ma in una recente antichità era diverso.
Il terzino era un asceta, un eremita della marcatura, e il suo monastero era la metà campo difensiva. Il suo lavoro era di impedire all’ala-attaccante di segnare, null'altro. Quando I'attaccante non aveva la palla, il terzino guardava il gioco con la tranquillità di una mucca, poteva anche sdraiarsi a scrutare le nuvole. Ciò che accadeva nell'altra metà del campo non lo riguardava, se non nel momento del gol, quando anche a lui era concesso gioire. Io assistetti alla rivoluzione, al passaggio epocale che segnò la fine del vecchio evo terzinario.
La nostra squadra, vigorosa équipe di montagna, aveva naturalmente due terzini. Quello di destra, Baslini detto Cagnone, era geneticamente difensore: basso, tarchiato, con corte gambe nodose adatte a percuotere gli stinchi dell'attaccante. Essendo quasi senza collo, non alzava mail a testa dal gioco. Il suo habitat era di trenta metri quadri. Lì ringhiava, sbuffava e si guadagnava la pagnotta. Mai, dico mai, si avvicinava alla linea di metà campo. Conquistata un'eventuale palla, aspettava che un mediano transitasse nei paraggi e gliela consegnava.
Il terzino sinistro invece si chiamava Galilei, detto Poldo, ed era un terzino anomalo. Alto, magro, con un grande compasso di gambe, il migliore nella corsa. Avrebbe potuto essere un centravanti, o un centrocampista, ma la tranquillità del carattere e un allenatore poco fantasioso lo avevano relegato a quel ruolo. Ma non era un terzino felice. Perché una volta fermato I'avversario, partiva con la sua lunga falcata e vedeva spalancarsi davanti una sconfinata prateria. Alzava la testa, annusava I'aria. Oltre la linea della metà campo, lo sapeva, c'era un altro meraviglioso mondo, il regno degli attaccanti e dei cannonieri, odore di polvere da sparo e avventura, un'isola fatata al di là del mare. Ma giunto alla linea mediana frenava, si arrestava e guardava I'allenatore, interrogandolo con gli occhi, come a dire: e adesso? Ma il mister, il catenacciaro Pullega, gridava ogni volta:
- Passa la palla e torna al tuo posto!
Il "tuo posto" era indietro, vicino al portiere, mentre altrove la battaglia infuriava. Qui Galilei restava, spalla a spalla col suo attaccante, con cui poteva stabilire qualsiasi rapporto: di indifferenza, di simpatia, di vaffanculo, di sputi, di muta solidarietà. Ma all’attaccante qualche volta, veniva concesso di cambiare metà campo per difendere. Poldo invece no: invecchiava lì, inchiodato al suo destino.
Un giorno perdevamo uno a zero, gol beccato al ventesimo del primo tempo. .Attaccavamo ormai da più di un'ora senza successo. Gli avversari, caparbi, biancorossi è valligiani, chiusi nel loro bunker, resistevano. Per Baslini e Poldo c'era poco lavoro. Baslini si era addirittura messo a corteggiare una vistosa bruna del pubblico. Galilei invece allungava il collo da airone, per spiare cosa accadeva là in fondo, e scalpitava. L’assedio proseguì, ma era chiaro che la nostra spinta si attenuava, gli attaccanti erano esausti e sempre più facilmente controllabili, i tiri divenivano fiacchi e il fiato mancava. Io ero azzoppato e il centravanti ansava come un vegliardo. Il nostro destino sembrava segnato.
Ma ecco la storia irrompere tra noi. Una palla calciata altissima rimbalzò sulla metà campo. Nessuno era nelle vicinanze, la mezz’ala destra avversaria si mosse per domarla, a piccoli- passi. Ma dalla nostra area, a grandi falcate, come un cavallo al galoppo,ecco partire Poldo, eccolo divorare il terreno, eccolo anticipare I'avversario e, palla al piede, ritrovarsi per inerzia esattamente un metro oltre la nostra metà campo, in terra nemica. Si fermò. Forse temeva la punizione per il suo sacrilegio: un fulmine dal cielo, o un sisma. Mi nulla di questo accadde. Davanti a lui c'era l’altra metà proibita, quella della porta avversaria. Una luce prometeica brillò nei suoi occhi.
- Passala e torna indietro! - tuonò Pullega.
- Col culo, mister! - rispose Galilei, e continuò ad avanzate, sotto lo sguardo allibito dei biancorossi. Nessuno osò affrontarlo, il suo ardire aveva annichilito tutti: Entrò in area, scartò con un dribbling fratricida il terzino avversario e sparò un gran tiro sotto la traversa. Gol e pareggio.
Ci furono alcuni secondi di silenzio. Pochi, tra cui il sottoscritto, capirono che era accaduto- qualcosa di rivoluzionario, paragonabile forse alla scoperta del fuoco. Il pubblico, dopo lo stupore applaudì. Galilei tornò al suo posto caracollando. Non sapeva ancora di aver cambiato il destino dei terzini futuri. L’allenatore Pullega scuoteva la testa, non sapendo se gioire o arrabbiarsi. Tutta la sua caponaggine difensiva era andata in fumo, era crollato il muro di Berlino delle sue ideologie. Poi sorrise. Quell’anno Galilei varcò molte altre volte la metà campo e segnò sei gol. Alla fine del campionato anche Baslini, timidamente, ogni tanto andava in attacco sui calci d’angolo.
Poco tempo dopo, un giocatore di nome Giacinto sarebbe passato alla storia come prototipo di terzino fluidificante e primo difensore goleador del campionato italiano. Ma io, che fui testimone degli eventi, posso dirlo: la rivoluzione che cambiò il calcio italiano, forse europeo, forse mondiale, fu iniziata dallo sconosciuto Galilei, in un pomeriggio di sole su un campetto di montagna. Lo fece senza miliardi e senza telecamere, davanti a trecento spettatori, con un rimborso spese di dodicimila lire mensili e lavandosi la maglia da solo, ogni lunedì.
Ovunque tu sia adesso, Poldo Galilei, a te la Gloria degli eroi sconosciuti.